sabato 18 aprile 2015

Delenda Heidegger

Non si può liquidare Heidegger semplicemente brandendo la clava dell'antisemitismo, troppo facile e troppo superficiale, col rischio che una volta passato lo scandalo ci si riproponga come i crauti a merenda. Capisco che il livello generale del dibattito filosofico mondiale stia a livelli da prima liceo, che la vera filosofia sia ormai la scienza che smuove le montagne, e che per lanciare la fatwa su Heidegger basti fare un discorsetto semplice semplice tutto incentrato sul politicamente corretto come per esempio quello di Wolin*, ma comunque non basta. La morte della filosofia si vede anche da questo, in questo suo ritirarsi nel recinto angusto della sfera morale, come se non avesse più nulla da dire sulla struttura della realtà in generale (questo sì il vero autoannientamento, ma di Heidegger stesso, che da una parte poneva la parola fine sulla filosofia in quanto epistème e dall'altra si lamentava dell'incontenibile forza della tecnica). 

Prima preoccupazione di Heidegger, prima ancora degli ebrei, fu quella di ridurre l'essere immutabile a qualcosa di diveniente o quantomeno diverso dall'ente (la famigerata differenza ontologica). Per Heidegger, che faticava a trovare le parole adatte a spiegarsi tanto da inventarle di sana pianta, l'essere non poteva e non doveva essere l'ente. L'ente deve essere lasciato libero di divenire in quanto pura possibilità, per cui l'essere immutabile della tradizione metafisica non può e non deve coincidere con l'ente. L'essere viene dunque assunto da Heidegger come quell'apertura, quella luce che illumina gli enti e li lascia essere, li rende visibili in quanto fenomeni. Da qui si innesta poi l'avversione verso la civiltà della tecnica, intesa come principale antagonista della libertà degli enti e in principal modo di quegli enti così speciali che sono gli uomini. La pretesa della scienza di controllare l'intero processo di produzione e di distruzione degli enti è per Heidegger la minaccia più estrema alla libera autodeterminazioe degli uomini, alla creazione, alla novità, alla fluidità del divenire. Il progresso scientifico, dunque, lungi dall'essere il primo e il più potente rimedio alle storture della vita, sarebbe invece per Heidegger il vero nemico dell'uomo, l'ennessimo ostacolo metafisico alla piena realizzazione della sua libertà.

Da questa vera e propria demonizzazione della tecnica conseguono tutte le sciagure a cui andranno incontro Heidegger e gli heideggeriani più sfegatati. Perché una volta posto come nemico pubblico numero uno il progresso scientifico, ciascuno, secondo la propria sensibilità, verrà a dipingere la tecnica ora come la più grande forma di nazismo (sminuendo il pericolo di quello vero prendendo una topica colossale, ed è il caso di Heidegger), ora come quel nemico assoluto, magari assimilabile al capitalismo, che giustifica ogni ulteriore indugiare nella tradizione marxista e anticapitalista (ed il caso di un'innumerevole schiera di filosofi e intellettuali contemporanei, fra i quali, caso esemplare, il buon Gianni Vattimo, che non a caso ha avuto pure lui i suoi bei grattacapi).

Su questa avversione viscerale all'apparato tecno-scientifico capace di trasformare più di ogni altro la realtà (invidia del pene, si direbbe, ma in senso filosofico), si innestarono poi in Heidegger le sue personali ubbìe mistico-teologiche e infine l'antisemitismo, tirato dentro a forza per la forza stessa di certi sortilegi molto in voga a quel tempo e non solo in quello. Con questo spero di avere chiarito almeno in parte la genesi di un'ossessione che ai più sembrerebbe come sbucata dal nulla e un po' campata in aria, ma che invece dimostra di avere alle sue spalle un suo solido background.

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