sabato 1 novembre 2014

Irrilevanza del pensiero in rivolta

"Pensiero in rivolta, dissidenza e spirito di scissione". Con un titolo e un sottotitolo così ci si sente per forza eroi nel vento, soli contro il resto del mondo secondo il noto adagio "ci sedemmo dalla parte del torto visto che gli altri posti erano già occupati", quasi a risentirsi della propria irrilevanza e quindi farne una bandiera... tesi: in un mondo dominato dal pensiero unico capitalista la realtà risulta intrasformabile proprio perché ogni dissidenza viene ridotta al silenzio dal potente apparato economico-finanziario (fine della storia imbalsamata nel trionfo senza fine del capitale). Per riaffermare la trasformabilità dell'esistente occorre quindi rimettere in moto la dialettica (fichitiana, hegeliana o marxiana che sia), cioè la volontà di contrastare il capitalismo in quanto male assoluto che uccide e mortifica la speranza nel futuro. L'azione del pensiero in rivolta deve contrastare il capitalismo fino a farlo crollare, dalle sue macerie nascerà una società più giusta improntata al rispetto dell'uomo e alla giusta frugalità, contrapposta alla brama di profitto infinito propria del capitalismo (un giorno ricorderemo i nostri eroi nei libri di storia ad imperitura memoria del loro azione devastatrice: viva la libertà!). Ingenuità disarmanti. Tutte le critiche che si possono rivolgere alle storture del capitalismo, critiche in larga parte anche condivisibili, non riescono ad annullarne comunque i benefici, fatta salva la possibilità più che concreta che il capitalismo vada a morire per questioni sue e completamente autonome rispetto a qualsiasi recriminazione tardo-marxista.

Acoltavo Cruciani in podcast, l'altra sera, ad un certo punto Mario Capanna se ne esce con questo concetto, riconducibile alla nota categoria idiomatica del "segreto di Pulcinella": "Non trova strano che in questo paese debba essere un filosofo non marxista come Emanuele Severino a ricordare che scopo essenziale del capitalismo è il profitto? Quindi le imprese o le multinazionali delocalizzano sulla base della loro esigenza di aumentare o meno il profitto; a loro, degli operai, che abbiano o non abbiano il lavoro non gliene impipa assolutamente niente, ragazzi, uscite dalla bolla mediatica!" (e Cruciani, quasi stupido: "certo, ma è assolutamente così..."). Non è merito di Severino indicare il profitto come la logica ultima del capitalismo, è evidente di per sé, come a dire che il fuoco brucia o che l'acqua bagna. Non è il pensiero marxista che può indicare i modi e i tempi di un eventuale declino del capitalismo, non più, nemmeno se corretto hegelianamente, come se per resuscitarlo occorresse dargli un cicchetto, fargli buttar giù un bicchierino di quello buono, la vitamina C. Mai provato a lavorare nelle pmi e pensare per una buona volta che fare profitto sarebbe cosa auspicabile anche dal dipendente in attesa di essere pagato? Dinamiche del lavoro troppo idealizzate possono condurre a conclusioni sballate, non è dentro Marx che va cercato il lavoro, sta nei laboratori tessili ossia nella prassi, sì, ma lavorativa.

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